Un caso di femminicidio di 2000 anni fa venne raccontato con poche frasi dallo storico Tacito negli Annali, IV 22 Novara, 30 novembre 2024 Il femminicidio e la violenza sulle donne, ricordati ogni anno il 25 novembre, non sono fenomeni attribuibili alla società moderna come molti credono, ma una piaga culturale radicata anche nelle società che ci hanno preceduto. L’aggressività di genere dilagò anche alla corte imperiale di Roma, tanto che alcuni imperatori si macchiarono di femminicidio. Si consideri che il mondo romano della tarda repubblica e del primo impero ha molte affinità con il mondo attuale per le sue molteplici contraddizioni; ad esempio, accanto alla possibilità di divorziare ad entrambi i coniugi si trova il diritto per il pater familias (padre, marito, suocero) di uccidere la matrona macchiata di adulterio. Un caso di femminicidio di 2000 anni fa venne raccontato con poche frasi dallo storico Tacito negli Annali, IV 22; ebbe come protagonista una donna di cui ignoriamo quasi tutto, se non i dettagli della sua infelice fine unitamente alla vicenda giudiziaria conseguente. Il fatto risale al 24 d.C. ed è raccontato in questi termini: la moglie del pretore Plauzio Silvano, di nome Apronia, venne trovata cadavere nella sua abitazione, ai piedi di una finestra dell’abitazione dalla quale era evidentemente precipitata. La schiava che la rinvenne informò subito il padre della matrona Lucio Apronio, il quale, sospettando del genero, cercò giustizia presso l’imperatore Tiberio. Naturalmente Silvano si dichiarò, seppure presentandosi in stato confusionale, estraneo al fatto, ipotizzando il suicidio della moglie. L’imperatore, recatosi sul posto, non fu convinto della spiegazione poiché trovò gli indizi di una colluttazione giustificativi di una spinta che avrebbe causato la caduta a terra della donna. I risultati delle indagini vennero comunicati dall’imperatore al senato che nominò i giudici per le indagini. Determinante successivamente sarebbe stato l’intervento di Livia, madre di Tiberio ed amica della nonna di Silvano, Urgulania, a cui portò a conoscenza il probabile esito del procedimento. Come conseguenza a Silvano fu fatto pervenire in carcere un pugnale dal significato chiaro: un suicidio gli avrebbe evitato un processo infamante che, altrimenti, avrebbe coinvolto anche la sua famiglia. Il suicidio non concluse la storia: un nuovo processo si sarebbe celebrato vedendo imputata la prima moglie di Silvano, Numantina, accusata di aver spinto l’ex marito ad eliminare Apronia di cui era gelosa; pare che la ex moglie avesse utilizzato filtri magici al fine di condizionarne la volontà. Furono forse i filtri magici la spiegazione della confusione mentale di Silvano al cospetto di Augusto? Comunque la potente famiglia di Silvano riuscì a scaricare su un’altra donna la responsabilità della morte di Apronia e riabilitare la memoria del suicida, anche se alla fine Numantina fu assolta. Un altro caso documentato solo da un’epigrafe rinvenuta nella necropoli dell’Isola Sacra a Fiumicino riporta la seguente scritta: “Restuto Piscinese e Prima Restuta (la) dedicarono a Prima Florentia figlia carissima, che fu affogata nel Tevere dal marito Orfeo; la pose il parente di sangue Dicembre. E visse sedici anni e mezzo.”. Di Prima Florentia purtroppo non si conosce altro e nemmeno se Orfeo fu punito. Molti più elementi abbiamo a disposizione per quanto riguarda la morte di Anna Regilla. Siamo nel II sec. d.C., periodo prospero per l’Impero Romano grazie al succedersi di imperatori illuminati. Infatti sotto l’impero di Adriano, nel 125 d.C. in una famiglia aristocratica imparentata con Faustina Maggiore, futura moglie di Antonino Pio, nacque Anna Regilla Atilia Caucidia Tertulla (Regilla corrisponde a “reginetta”) che in effetti dalla famiglia fu trattata da reginetta, come presuppone il nome, sia nell’impartirle una degna cultura sia nella scelta del futuro marito. La scelta cadde su un uomo più grande di lei allora quattordicenne, Erode Attico, uno stimato retore quarantenne titolare di un ingente patrimonio ereditato dal padre di origine greche. La sua fama era tale che venne scelto da Antonino Pio come precettore per i suoi figli adottivi Marco Aurelio e Lucio Vero. Da parte sua Erode Attico accettò di buon grado la proposta, spinto dal desiderio di alleanza con una stimata ed antica famiglia romana, al fine di bandire definitivamente le sue origini di graeculus (piccolo greco) ed entrare a pieno titolo nella società romana attraverso quel matrimonio. Erode Attico si dimostrò subito un marito violento e traditore nonostante la nascita di cinque figli. La situazione peggiorò ulteriormente quando Regilla dovette seguire il marito in Grecia, dove, pur risiedendo in palazzi lussuosi, si considerava una prigioniera in una società più arretrata di quella romana. Regilla riuscì comunque a farsi apprezzare per le sue opere di beneficienza nei confronti delle comunità locali e ricoprire prestigiosi incarichi sacerdotali. La sua situazione peggiorò nel 160 d.C. quando trentacinquenne, all’ottavo mese della sesta gravidanza, Alcimedonte, un fedele liberto del marito la percosse al ventre facendola abortire e causandole la morte. Il fratello di Regilla, Bradua, certo della colpevolezza di Erode Attico, fece celebrare il processo davanti alla corte di senatori, convinto che un tale atto contro sua sorella dovesse essere considerato come fosse contro di lui, patrizio rispettato da tutto il Senato. Naturalmente Erode Attico si dichiarò innocente addossando la colpa al liberto e sebbene l’accusa fosse precisa, era priva di prove palesi, per cui Erode fu assolto e nemmeno Alcimedonte ricevette punizioni. Forse l’intervento di Marco Aurelio depose a suo favore? Anche la vita ed il prestigio di Bradua ebbero conseguenze negative dopo il processo; fu infatti allontanato da Roma con l’incarico di proconsole che pose limiti alla sua carriera politica. Dal canto suo Erode, nel tentativo di allontanare i dubbi sul delitto, esibì un grande dolore per la morte di Regilla dedicandole epigrafi e monumenti, tra cui il pregevole cenotafio sulla Via Appia. Altro caso è quello di Giulia Maiana, che visse nell’odierna Lione, di cui si conserva l’epitaffio, che recita: “Agli Dei Mani [tra due asce] e alla quiete eterna di Giulia Maiana, donna virtuosissima, assassinata per mano di un marito crudelissimo, che morì prima di quanto il fato le avesse accordato; con lui visse ventotto anni, da lui generò due figli, un ragazzo di diciannove anni e una ragazza di diciotto anni. O fedeltà, o pietà. Suo fratello Giulio Maggiore, per la dolcissima sorella, e Ingenuinio Januario suo figlio si preoccuparono di erigere (il cippo) e di dedicarlo sotto l’ascia (solo l’insegna dell’ascia).”. In conclusione, grazie allo studio sulle iscrizioni funerarie di epoche lontane sono state ricostruite le storie di alcune donne assassinate dai mariti. È purtroppo la conferma di un retaggio culturale che affonda le radici nei secoli, davvero difficilmente estirpabile. Copyright testo e fotografia Riccardo Pezzana Sara
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